a cura dell'Avv. Daniele Golini - L'era digitale ha trasformato radicalmente il modo in cui le informazioni vengono create, condivise e consumate, rendendo ogni cittadino un potenziale editore capace di raggiungere migliaia di persone con un semplice click. Questa democratizzazione dell'informazione, pur rappresentando una conquista straordinaria per la libertà di espressione, ha generato fenomeni inediti e preoccupanti, primo fra tutti la diffusione incontrollata di fake news e disinformazione attraverso i social media e le piattaforme digitali.
Il fenomeno delle notizie false non è certamente nuovo nella storia dell'umanità, ma la velocità e la capillarità con cui oggi possono propagarsi attraverso la rete hanno amplificato enormemente le loro potenziali conseguenze dannose. Una notizia falsa può diventare virale in pochi minuti, raggiungere milioni di persone e causare danni irreparabili prima ancora che sia possibile verificarne l'attendibilità o smentirla ufficialmente. In questo contesto, il diritto penale italiano si trova ad affrontare sfide inedite, dovendo applicare norme concepite in epoche precedenti a fenomeni di portata e complessità senza precedenti. La questione centrale non riguarda più soltanto chi crea le fake news, ma si estende a tutti coloro che, consapevolmente o inconsapevolmente, contribuiscono alla loro diffusione attraverso condivisioni, commenti e interazioni sui social media, spesso ignorando di poter incorrere in gravi responsabilità penali e civili.

INDICE
Il quadro normativo: gli articoli 656 e 658 del Codice Penale
La diffusione di notizie false sui social media: responsabilità penale
Diffamazione aggravata e fake news: quando la condivisione lede la reputazione
Il difficile confine tra libertà di espressione e disinformazione
La responsabilità di blogger, influencer e gestori di piattaforme
Le conseguenze penali e civili della condivisione di fake news
Conclusioni
Il quadro normativo: gli articoli 656 e 658 del Codice Penale
Il sistema penale italiano dispone di strumenti normativi specifici per contrastare la diffusione di notizie false, elaborati dal legislatore del 1930 ma che mantengono piena attualità nell'era digitale. Il riferimento principale è rappresentato dall'articolo 656 del Codice Penale, che punisce la "pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico" con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a tremila lire, stabilendo che "chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l'ordine pubblico, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato".
La norma presenta caratteristiche di particolare interesse per la sua applicazione ai fenomeni contemporanei di disinformazione digitale. In primo luogo, la fattispecie è configurata come reato di pericolo, il che significa che non è necessario che si verifichi effettivamente un turbamento dell'ordine pubblico, essendo sufficiente che sussista la mera possibilità astratta che tale turbamento possa verificarsi. La Cassazione penale, con sentenza n. 9475 del 1996, ha chiarito che "il reato di pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico è un reato di pericolo, sicché nulla rileva, ai fini della sua esclusione, il fatto che non si sia verificato alcun turbamento dell'ordine pubblico, essendo sufficiente che vi fosse un'astratta possibilità che un tale turbamento in effetti si verificasse".
La giurisprudenza ha inoltre precisato che la norma distingue tra "notizie" e "voci", attribuendo rilevanza penale soltanto alle prime. La Cassazione penale, con sentenza n. 3967 del 1977, ha stabilito che "a differenza della 'voce', caratterizzata dalla vaghezza e dalla incontrollabilità, la 'notizia' rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 656 c.p. è non del tutto svincolata da oggettivi punti di riferimento che consentano la identificazione degli elementi essenziali di un fatto e ne rendano possibile il controllo".
L'articolo 658 del Codice Penale disciplina il "procurato allarme presso l'Autorità", punendo "chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l'Autorità, o presso enti o persone che esercitano un pubblico servizio" con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda da cento a cinquemila lire. Questa fattispecie assume particolare rilevanza nell'era dei social media, dove notizie false su emergenze, calamità o pericoli possono rapidamente raggiungere le autorità competenti attraverso segnalazioni di cittadini allarmati.
La Cassazione penale, con sentenza n. 8764 del 2023, ha chiarito che "il reato di procurato allarme presso l'Autorità di cui all'art. 658 c.p. è configurabile anche nel caso di annuncio 'mediato' di un disastro, infortunio o pericolo inesistente, ossia quando la falsa notizia non sia comunicata direttamente alle forze dell'ordine ma ad un privato cittadino, purché per l'apparente serietà del suo contenuto risulti idonea a provocare allarme nelle Autorità determinandone l'intervento anche d'ufficio".
La diffusione di notizie false sui social media: responsabilità penale
L'applicazione delle norme penali tradizionali ai fenomeni di disinformazione digitale presenta complessità inedite che la giurisprudenza sta progressivamente affrontando attraverso un'interpretazione evolutiva dei principi consolidati. La diffusione di fake news attraverso i social media può configurare diverse fattispecie criminose, a seconda delle modalità, del contenuto e delle conseguenze della condivisione.
Un caso emblematico è rappresentato dalla sentenza della Cassazione penale n. 22531 del 2025, che ha affrontato la questione della diffusione di notizie false attraverso Facebook durante il periodo di emergenza pandemica. La Suprema Corte ha stabilito che "integra la contravvenzione di cui all'art. 656 cod. pen. la condotta di chi, durante il periodo di emergenza pandemica, pubblica su Facebook un selfie scattato all'interno del palazzo di giustizia accompagnato da commenti che rappresentano falsamente l'omissione o la superficialità dei controlli anti-Covid, quando invece questi sono stati regolarmente effettuati".
La decisione è particolarmente significativa perché chiarisce che la responsabilità penale può sussistere anche quando la notizia falsa non sia stata creata ex novo dall'autore del post, ma derivi da una rappresentazione distorta di fatti realmente accaduti. La Cassazione ha precisato che "la condotta assume particolare rilevanza penale quando, in un periodo di grave emergenza sanitaria, la falsa rappresentazione di controlli omessi o superficiali è idonea a suscitare allarme e turbare l'ordine pubblico, generando preoccupazione nella popolazione circa l'effettività delle misure di contenimento del virus".
Un aspetto cruciale riguarda l'identificazione dell'autore della diffusione. La giurisprudenza ha chiarito che la riferibilità del post all'imputato è provata quando, pur in assenza di prova diretta della paternità della pubblicazione, risulti che l'account social sia a lui intestato e che egli sia stato il soggetto che ha materialmente scattato la fotografia poi diffusa. Questo principio assume particolare rilevanza pratica, poiché stabilisce che la titolarità dell'account e la disponibilità del materiale diffuso possono essere sufficienti per attribuire la responsabilità penale, anche in assenza di prove dirette sulla paternità della pubblicazione.
La giurisprudenza ha inoltre affrontato la questione della responsabilità per la condivisione di contenuti creati da altri. La Cassazione penale, con sentenza n. 25430 del 2025, ha stabilito che il reato di diffamazione si configura quando l'imputato diffonde messaggi contenenti espressioni offensive della reputazione altrui con la consapevolezza della diffusione del contenuto offensivo, rilevando che la diffusione delle offese risulta indifferente sia il soggetto cui le offese siano attribuite, sia che l'imputato non abbia materialmente scritto i messaggi offensivi.
Diffamazione aggravata e fake news: quando la condivisione lede la reputazione
La diffusione di fake news attraverso i social media può configurare il reato di diffamazione aggravata quando il contenuto falso sia idoneo a ledere la reputazione di persone specifiche. L'articolo 595 del Codice Penale punisce chiunque comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione" e prevede un'aggravante specifica quando "l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che i social media rientrano nell'ambito di applicazione dell'aggravante prevista per il "mezzo della stampa". La sentenza del Tribunale penale di Pescara n. 778 del 2022 ha stabilito che "la diffusione attraverso social network integra l'aggravante del mezzo della stampa di cui all'art. 595 comma 3 c.p.", equiparando di fatto le piattaforme digitali ai mezzi di comunicazione tradizionali per quanto riguarda la gravità della condotta diffamatoria.
Tuttavia, la configurabilità dell'aggravante richiede che la diffusione avvenga effettivamente verso una pluralità indeterminata di soggetti. La Cassazione penale, con sentenza n. 29683 del 2025, ha precisato che "la configurabilità del delitto di diffamazione aggravata ex art. 595 comma 3 cod. pen. richiede che la condotta offensiva sia rivolta verso una pluralità indeterminata di soggetti, non essendo sufficiente la mera potenzialità diffusiva del mezzo utilizzato".
La distinzione assume particolare rilevanza pratica per le diverse modalità di condivisione sui social media. La Suprema Corte ha chiarito che la pubblicazione di contenuti offensivi su piattaforme social quali Facebook o WhatsApp integra il reato di diffamazione aggravata solo quando risulti effettivamente accessibile ad una cerchia ampia e indeterminata di destinatari, mentre non sussiste l'aggravante quando la diffusione avviene attraverso messaggi privati o gruppi ristretti di contatti selezionati.
Un aspetto di particolare complessità riguarda la responsabilità degli amministratori di pagine e gruppi social. La giurisprudenza ha elaborato il principio secondo cui l'amministratore di una pagina Facebook risponde del reato in concorso con gli autori dei post diffamatori quando, pur avendone la possibilità tecnica in qualità di amministratore, non provvede alla rimozione dei contenuti lesivi dell'altrui reputazione e, anzi, manifesta pubblicamente la propria adesione attraverso l'apposizione di 'like'.
La Cassazione penale, con sentenza n. 5354 del 2024, ha tuttavia precisato che la responsabilità dell'amministratore del sito o di chi gestisce la pagina del social network può configurarsi solo in presenza di elementi che ne denotino la compartecipazione alla attività diffamatoria, ossia quando sia provato il suo consapevole e volontario concorso nella diffusione stessa.
Il difficile confine tra libertà di espressione e disinformazione
La tensione tra la tutela della libertà di espressione, garantita dall'articolo 21 della Costituzione, e la necessità di contrastare la disinformazione rappresenta uno dei nodi più complessi del diritto contemporaneo. Il principio costituzionale stabilisce che tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", ma precisa anche che "sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume.
La Corte Costituzionale ha affrontato direttamente la questione della compatibilità tra l'articolo 656 del Codice Penale e la libertà di espressione. La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 80 del 1962, ha stabilito che la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 656 del Codice penale risulta manifestamente infondata quando si contesti la compatibilità della norma con l'articolo 21 della Costituzione che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero.
La Consulta ha chiarito che il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, pur costituendo un diritto fondamentale garantito costituzionalmente, non può considerarsi assoluto e privo di limitazioni quando la sua esplicazione si concretizzi nella diffusione di manifestazioni di pensiero false o esagerate, obiettivamente non conformi a realtà, ovvero tendenziose, seppur conformi a realtà ma pubblicate o diffuse a scopo disfattista e in guisa da destare pubblico allarme.
Il bilanciamento tra i due valori costituzionali richiede un'attenta valutazione caso per caso. La giurisprudenza ha elaborato criteri specifici per distinguere tra l'esercizio legittimo del diritto di cronaca e di critica e la diffusione illecita di notizie false. In particolare, il diritto di cronaca trova i suoi limiti nei principi di verità, pertinenza e continenza, che devono essere tutti rispettati per escludere la responsabilità penale.
La questione assume particolare complessità nell'era digitale, dove la velocità di diffusione delle informazioni spesso non consente verifiche approfondite prima della pubblicazione. La Cassazione penale, con sentenza n. 19367 del 2012, ha affrontato il caso di un giornalista che aveva pubblicato una notizia falsa, stabilendo che "il giornalista che pubblica una notizia relativa alla preparazione di un attentato contro personalità istituzionali, pur manifestando nell'editoriale dubbi sulla veridicità della stessa e dichiarando espressamente di non essere in grado di stabilire se abbia fondamento o sia stata inventata, risponde del reato contestato quando risulti evidente la sua colpa nell'omessa verifica della fondatezza della notizia".
La Suprema Corte ha precisato che l'errore sul fatto di reato, trattandosi di contravvenzione, non esclude la sussistenza del reato se determinato per colpa, e nel caso del giornalista la colpa risulta configurabile quando questi, prima di pubblicare una notizia di particolare gravità idonea a suscitare allarme non solo nella pubblica opinione ma anche nelle autorità preposte alla tutela dell'ordine pubblico, omette di adempiere all'obbligo professionale di accertare la veridicità della stessa.
La responsabilità di blogger, influencer e gestori di piattaforme
L'esplosione dei social media e delle piattaforme digitali ha creato nuove figure di comunicatori che operano al di fuori dei canali tradizionali dell'informazione, ponendo questioni inedite sulla loro responsabilità penale per la diffusione di contenuti falsi o lesivi. Blogger, influencer, youtuber e gestori di pagine social si trovano spesso a operare in una zona grigia, dove non è sempre chiaro se e quando si applichino le norme tradizionali sulla responsabilità editoriale.
La giurisprudenza ha progressivamente chiarito che la responsabilità penale per la diffusione di fake news non dipende dalla qualifica professionale del soggetto, ma dalle concrete modalità di diffusione e dal contenuto dei messaggi veicolati. Tuttavia, esistono specificità che riguardano i diversi ruoli e le diverse piattaforme utilizzate.
Per quanto riguarda i blogger, la giurisprudenza ha stabilito che essi possono essere equiparati ai direttori di giornale quando gestiscano siti web con caratteristiche editoriali. La responsabilità si estende non solo ai contenuti direttamente pubblicati, ma anche a quelli inseriti da terzi quando il gestore del blog abbia la possibilità tecnica di controllarli e rimuoverli.
La Cassazione penale, con sentenza n. 5354 del 2024, ha tuttavia precisato che "l'art. 57 cod. pen. è applicabile esclusivamente alle testate giornalistiche telematiche e non ai diversi mezzi informatici di manifestazione del pensiero quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list o Facebook". Questo significa che la responsabilità oggettiva prevista per i direttori di giornale non si applica automaticamente ai gestori di blog o pagine social.
Per gli influencer, la questione si complica ulteriormente per la natura spesso commerciale della loro attività e per l'ampio seguito che possono raggiungere. La diffusione di notizie false da parte di soggetti con migliaia o milioni di follower può avere conseguenze particolarmente gravi, amplificando enormemente l'impatto della disinformazione. In questi casi, la responsabilità penale può configurarsi tanto per i reati specifici di diffusione di notizie false quanto per eventuali danni derivanti dalla diffamazione o dalla violazione di altri diritti.
Un aspetto di particolare rilevanza riguarda la responsabilità delle piattaforme digitali che ospitano i contenuti. Mentre la normativa europea e nazionale prevede generalmente un regime di esenzione dalla responsabilità per i contenuti pubblicati dagli utenti (principio del "safe harbor"), esistono obblighi specifici di rimozione dei contenuti illeciti una volta che ne venga segnalata la presenza.
La questione della moderazione dei contenuti rappresenta una delle sfide più complesse dell'era digitale. Le piattaforme si trovano a dover bilanciare la tutela della libertà di espressione con la necessità di contrastare la disinformazione, spesso dovendo prendere decisioni rapide su contenuti di dubbia liceità. Gli algoritmi di intelligenza artificiale utilizzati per la moderazione automatica possono commettere errori, sia nel senso di rimuovere contenuti leciti sia nel senso di lasciare online contenuti illeciti.
La responsabilità penale dei gestori di piattaforme può configurarsi quando essi, pur essendo venuti a conoscenza della presenza di contenuti illeciti, omettano di rimuoverli tempestivamente. Tuttavia, la valutazione deve considerare la complessità tecnica della gestione di piattaforme con miliardi di utenti e contenuti, nonché la necessità di garantire procedure di appello per gli utenti che ritengano di essere stati censurati ingiustamente.
Le conseguenze penali e civili della condivisione di fake news
Le conseguenze legali della diffusione di fake news si articolano su diversi piani, coinvolgendo tanto il diritto penale quanto quello civile, con sanzioni che possono essere particolarmente severe a seconda della gravità della condotta e dei danni causati. La comprensione di questi aspetti è fondamentale per tutti coloro che utilizzano i social media e le piattaforme digitali, poiché anche una semplice condivisione può comportare responsabilità legali significative.
Sul piano penale, le sanzioni previste dagli articoli 656 e 658 del Codice Penale, pur essendo formalmente modeste (arresto fino a tre o sei mesi e ammende di importo limitato), possono essere accompagnate da conseguenze collaterali di particolare gravità. La condanna penale, anche per contravvenzioni, comporta l'iscrizione nel casellario giudiziale e può avere ripercussioni significative sulla reputazione personale e professionale del condannato.
Inoltre, quando la diffusione di fake news si accompagni ad altri reati, come la diffamazione aggravata, le sanzioni possono essere molto più severe. L'articolo 595 del Codice Penale prevede la reclusione fino a tre anni per la diffamazione aggravata dal mezzo della stampa, pena che può essere ulteriormente aumentata in presenza di circostanze aggravanti specifiche.
Un aspetto di particolare rilevanza riguarda l'applicabilità dell'articolo 131-bis del Codice Penale, che prevede la non punibilità per particolare tenuità del fatto. La Cassazione penale, con sentenza n. 22531 del 2025, ha stabilito che "il giudice di merito deve motivare specificamente sull'eventuale applicabilità della causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen., valutando i caratteri della condotta sotto il profilo della particolare tenuità del fatto, specie quando questa si configuri come mera goliardia e non abbia provocato un effettivo allarme sociale, né abbia avuto ampia diffusione".
Sul piano civile, la diffusione di fake news può comportare l'obbligo di risarcimento del danno nei confronti dei soggetti lesi. Il danno può essere tanto patrimoniale, quando la notizia falsa comprometta attività economiche o professionali, quanto non patrimoniale, per la lesione della reputazione e dell'immagine. I risarcimenti possono raggiungere importi particolarmente elevati, soprattutto quando la diffusione avvenga attraverso canali con ampia visibilità.
La giurisprudenza civile ha chiarito che il risarcimento del danno può essere richiesto anche in caso di assoluzione penale o di prescrizione del reato, applicandosi criteri di valutazione diversi tra i due ambiti. Mentre in sede penale è necessaria la prova oltre ogni ragionevole dubbio, in sede civile è sufficiente il più probabile che non per ottenere il risarcimento.
Un aspetto di crescente rilevanza riguarda i danni punitivi, che la giurisprudenza italiana sta progressivamente riconoscendo in casi di particolare gravità. Quando la diffusione di fake news sia caratterizzata da dolo specifico o da particolare spregiudicatezza, il risarcimento può essere aumentato oltre il mero ristoro del danno effettivamente subito, assumendo una funzione deterrente e sanzionatoria.
Le conseguenze si estendono anche agli aspetti amministrativi e disciplinari. Per i professionisti iscritti ad albi o ordini, la diffusione di fake news può comportare sanzioni disciplinari che vanno dalla censura alla sospensione o radiazione dall'albo. Per i dipendenti pubblici, la condotta può configurare illeciti disciplinari con conseguenze che vanno dal richiamo scritto al licenziamento.
Conclusioni
L'analisi condotta evidenzia come la diffusione di fake news e disinformazione attraverso i social media e le piattaforme digitali rappresenti una delle sfide più complesse del diritto contemporaneo, richiedendo un delicato bilanciamento tra la tutela della libertà di espressione e la necessità di contrastare fenomeni che possono causare danni gravi all'ordine pubblico, alla reputazione delle persone e al corretto funzionamento delle istituzioni democratiche.
Il quadro normativo italiano, pur basandosi su norme elaborate nel 1930, dimostra una sorprendente attualità e capacità di adattamento ai fenomeni digitali contemporanei. Gli articoli 656 e 658 del Codice Penale, insieme alle disposizioni sulla diffamazione, offrono strumenti efficaci per contrastare la disinformazione, ma la loro applicazione richiede un'interpretazione evolutiva che tenga conto delle specificità del mondo digitale.
La giurisprudenza di legittimità ha progressivamente chiarito che la responsabilità penale per la diffusione di fake news non dipende dalla creazione originale del contenuto falso, ma può derivare anche dalla semplice condivisione quando questa avvenga con modalità e in contesti idonei a causare allarme sociale o a ledere la reputazione altrui. La Cassazione ha chiarito che il reato di diffamazione si configura quando l'imputato diffonde messaggi contenenti espressioni offensive della reputazione altrui con la consapevolezza della diffusione del contenuto offensivo, rilevando che la diffusione delle offese risulta indifferente sia il soggetto cui le offese siano attribuite, sia che l'imputato non abbia materialmente scritto i messaggi offensivi.
La distinzione tra notizie false e mere voci, elaborata dalla giurisprudenza, mantiene la sua importanza anche nel contesto digitale, richiedendo che il contenuto diffuso abbia caratteristiche di specificità e verificabilità tali da poter essere qualificato come "notizia" in senso tecnico. Tuttavia, la velocità di diffusione tipica dei social media può rendere questa distinzione più sfumata, poiché anche contenuti inizialmente vaghi possono rapidamente acquisire dettagli specifici attraverso il processo di condivisione e rielaborazione collettiva.
Il confine tra libertà di espressione e disinformazione rimane uno degli aspetti più delicati della materia, richiedendo un approccio caso per caso che consideri tanto il contenuto del messaggio quanto le modalità e il contesto della sua diffusione. La Corte Costituzionale ha chiarito che la tutela dell'ordine pubblico può giustificare limitazioni alla libertà di espressione, ma tali limitazioni devono essere proporzionate e rispettose del nucleo essenziale del diritto costituzionale.
La responsabilità di blogger, influencer e gestori di piattaforme presenta profili di particolare complessità, richiedendo un'attenta valutazione del ruolo effettivamente svolto da ciascun soggetto nella catena di diffusione dell'informazione. La giurisprudenza ha chiarito che la responsabilità non può essere automaticamente estesa a tutti i soggetti coinvolti, ma deve essere valutata in base al contributo causale effettivamente fornito alla diffusione del contenuto illecito.
Le conseguenze penali e civili della diffusione di fake news possono essere particolarmente gravi, spaziando dalle sanzioni penali tradizionali ai risarcimenti del danno, che possono raggiungere importi elevati soprattutto quando la diffusione avvenga attraverso canali con ampia visibilità. La possibilità di applicare l'articolo 131-bis del Codice Penale per particolare tenuità del fatto offre uno strumento di flessibilità che consente di graduare la risposta sanzionatoria in base alla gravità concreta della condotta.
In prospettiva, l'evoluzione tecnologica e la crescente sofisticazione delle tecniche di disinformazione richiederanno probabilmente ulteriori interventi normativi e un continuo adattamento dell'interpretazione giurisprudenziale. L'intelligenza artificiale, i deepfake e le tecnologie emergenti pongono sfide inedite che il diritto dovrà affrontare con strumenti sempre più raffinati, mantenendo però saldo il principio del bilanciamento tra libertà di espressione e tutela dell'ordine pubblico.
La materia richiede quindi un approccio prudente e tecnicamente informato da parte di tutti i soggetti coinvolti. I cittadini che utilizzano i social media devono essere consapevoli che anche una semplice condivisione può comportare responsabilità penali e civili, mentre gli operatori dell'informazione e i gestori di piattaforme devono sviluppare sistemi sempre più efficaci per contrastare la disinformazione senza compromettere la libertà di espressione.
Solo attraverso una corretta comprensione dei principi giuridici applicabili e un'attenta valutazione delle specificità del caso concreto sarà possibile navigare in questo complesso territorio giuridico, garantendo il rispetto tanto dei diritti fondamentali quanto della verità dell'informazione, elemento essenziale per il corretto funzionamento di una società democratica nell'era digitale.
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